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Reclamo avverso decreto del giudice tutelare in tema di Amministrazione di sostegno: un caso
particolare.
Confortante recentissima sentenza del Tribunale di Roma (cfr. Tribunale di Roma n.6353/2020) che conferma un orientamento consolidato, anche nel Nostro Tribunale di Bologna (cfr. Tribunale di Bologna, n.20229/2018), su di un aspetto che, giuridicamente, può apparire come marginale, ma che, all’atto pratico, ha causato un certo proliferare di dubbi ed equivoci nella assemblee condominiali: la maggioranza necessaria, affinché l’assemblea deliberi regolarmente sul rinnovo e/o conferma dell’incarico all’amministratore di condominio.
Le legge 220/2012 (novella di parte del capo II Del condominio degli edifici, del titolo VII del libro IV del codice civile, entrata in vigore il 18 Giugno 2013) ha introdotto il sistema del rinnovo automatico della durata dell’incarico di Amministratore condominiale: recita infatti il comma 10, dell’art.1129 c.c.,: “L’incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata”.
Secondo una prima autorevole interpretazione, con questa norma il legislatore sembra abbia inteso prevedere un meccanismo per il quale, ferma restando la durata annuale dell’incarico, l’amministratore possa essere tacitamente (quindi in caso di inerzia dell’Assemblea) rinnovato per un solo ulteriore anno, alle stesse condizioni, compreso il compenso: questo al fine di assicurare, in ogni caso, una certa continuità nell’amministrazione dell’edificio.
I dubbi (e in alcuni il contenzioso) sono insorti là dove in alcuni condomìni si è inteso aggirare il problema del quorum deliberativo (confondendo peraltro il rinnovo con la conferma), cercando di fare passare una interpretazione distopica della fattispecie, tale per cui , al fine di rinnovare o confermare l’incarico ad un Amministratore già nominato, fosse sufficiente il voto di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell’edificio espresso in millesimi.
Come è noto, invece, il quorum (c.d. qualificato o rafforzato) necessario per la nomina (e la revoca) dell’amministratore è costituito da un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti all’assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio.
L’interpretazione distopica a cui si è fatto cenno sopra è la seguente: se la norma che stabilisce i quorum costitutivi e deliberativi, qualificati o rafforzati (art. 1136, IV c. c.c.), cita espressamente solo la nomina dell’amministratore, ma non il rinnovo e/o la conferma, ciò significa che tale norma si riferisce ad un amministratore che deve essere nominato ex novo, sconosciuto all’Assemblea, quindi che deve entrare in carica, non dunque ad un amministratore già in carica, che deve essere solo confermato o rinnovato, quindi che l’assemblea già conosce.
La distorta conclusione di questa interpretazione è che la delibera di conferma e/rinnovo dell’incarico all’amministratore possa essere votata dalla maggioranza degli intervenuti al consesso condominiale che rappresentino almeno un terzo del valore dell’edificio.
Secondo questa interpretazione, quindi, tanti condomini che rappresentino invero la minoranza rispetto alla compagine condominiale, possono confermare e/o rinnovare l’incarico ad un amministratore a loro confacente.
In entrambe le sentenza qui citate, infatti, gli amministratori dei condomìni interessati erano stati confermati dalla minoranza dei condomini: nel caso all’attenzione del Tribunale capitolino, da 4 condomini su 12 rappresentanti 472,16/1000; mentre nel caso deciso dal Tribunale di Bologna e patrocinato dallo scrivente, l’amministratore era stato confermato amministratore del Supercondominio da 21 condomini su 63, rappresentanti 370,84/1000 e amministratore del condominio da 19 condomini su 56, rappresentanti 450,40/1000.
In realtà, una esegesi corretta della norma in commento, non dovrebbe condurre ad una applicazione di essa così distorta da consentire ad una minoranza dei condomini di votare l’amministratore a loro più vicino.
Innanzitutto occorre distinguere tra rinnovo e conferma: il primo può avvenire una sola volta in automatico e/o tacitamente, in caso di inerzia dell’Assemblea; la seconda riguarda la delibera, al termine del periodo di durata dell’incarico, di conferma della fiducia dell’assemblea all’Amministratore.
Ciò premesso, a ben vedere, le delibere di nomina e di conferma hanno contenuti ed effetti giuridici identici: differiscono solamente perché la conferma riguarda una persona già conosciuta all’assemblea, mentre la nomina riguarda una persona nuova.
Tuttavia, la predetta identità di contenuti, non può essere un discrimine sufficiente per aggirare le maggioranze necessarie per le relative delibere: infatti, in entrambi i casi, l’amministratore deve ricevere la piena fiducia (da parte della maggioranza) dei condomini, né varrebbe sostenere che la conferma sia atto di minore importanza della nomina, giacché la decisione di confermare un amministratore in carica, presuppone necessariamente la valutazione del suo operato (cfr.Trib. Modena, Sent. N.1244/2016).
Invero, la circostanza che l’amministratore da confermare sia una persona già conosciuta ai condomini può infatti comportare tanto una valutazione positiva del suo operato, quanto una valutazione negativa.
In conclusione, sulla base di ultime queste considerazioni, è evidente come non si possa sostenere che per la conferma (o il rinnovo dell’incarico) ad un amministratore già nominato sia sufficiente una maggioranza più esigua (recte: una minoranza), ma anzi la logica conclusione è che sia la stessa maggioranza che l’ha nominato ad esprimere, al termine dell’annualità di durata dell’incarico, un giudizio sul suo operato.
Se la delibera di conferma non raggiunge il quorum necessario (maggioranza dei partecipanti all’assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio), significa che la valutazione dell’operato dell’amministratore è negativa e che l’amministratore sfiduciato entrerà in regime di prorogatio, ex art. 1129 comma VIII, c.c., sino a che non venga nominato un nuovo amministratore o, caso non raro, che non riceva nuovamente la conferma dell’incarico con la maggioranza necessaria.
Il recente arresto del Tribunale di Forlì (cfr. Sentenza 10 Marzo 2020, N. 206) getta una luce sinistra su di una prassi molto comune nei Condomìni: la polizza di tutela legale.
Sempre più spesso, infatti, l’Amministratore tutela il Condominio, ponendolo al riparo dai costi correlati ad eventuali vertenze, sia sul piano attivo che sul piano passivo, stipulando apposita polizza che copra le spese di assistenza legale del Condominio, anche in caso di soccombenza.
Il provvedimento del Tribunale di Forlì (qui in veste di Giudice del gravame di una sentenza del Giudice di Pace di Forlì), nel rigettare l’appello del Condominio, si richiama ad un orientamento stabilito da una precedente sentenza della Corte di Appello di Bologna (Corte di Appello Bologna, n. 1921/2015).
Il punto cruciale delle decisioni sopra citate ruota attorno all’art.1132 c.c. che, in materia condominiale, stabilisce il diritto di ciascun condomino, autonomamente rispetto alle deliberazioni dell’Assemblea, di dissociarsi dalle conseguenze di una azione legale intrapresa o subita dal Condominio, con dichiarazione scritta comunicata all’Amministratore di Condominio , il c.d. atto di estraneazione.
A ben vedere, la norma richiamata presenta alcuni profili ambigui: questa ambiguità fa sì che l’art. 1132 c.c. venga sovente invocato in maniera distorta nelle Assemblee Condominiali.
L’art.1132 .c.c., rubricato “Dissenso dei condomini rispetto alle liti”, secondo l’orientamento maggioritario, riguarda esclusivamente le spese legali da rifondere in caso di soccombenza del Condominio nella controversia, quindi le spese che il Condominio deve rimborsare alla parte vittoriosa.
In questo senso, restano escluse dall’ambito della norma le spese legali sostenute dal Condominio per la propria assistenza legale: in sostanza, il condomino, dissociandosi a norma dell’art.1132 c.c. non può comunque evitare di partecipare alle spese e ai costi di assistenza legale del Condominio, ripartiti pro-quota tra tutti i condomini.
Inoltre, il condomino dissenziente potrebbe invocare tale norma solo in caso di controversia deliberata dall’Assemblea di Condominio e non in caso di controversia promossa (o resistita) direttamente dall’Amministratore.
In ogni caso, tornando alla vicenda esaminata dal Tribunale di Forlì, in quel caso una condomina aveva impugnato la delibera con cui l’assemblea aveva approvato il bilancio con una voce di spesa relativa al premio pagato per la sottoscrizione di una polizza di tutela legale, sostenendo che tale polizza contrasterebbe con l’art. 1132 c.c.
Il condominio difendeva la delibera, eccependo che la polizza lascia comunque a ciascun condomino la possibilità di dissociarsi da una eventuale lite, limitandosi a porre al riparo i condomini dalle spese di assistenza legale propria e della parte vittoriosa in caso di soccombenza.
Il Tribunale di Forlì, rigettando l’appello del Condominio, statuisce che il premio pagato per la stipula di una polizza legale, ripartito pro-quota tra i condomini, svuota di significato il principio sancito dall’art.1132 c.c., perché obbliga ciascun condomino a partecipare, seppur pro-quota, ad un costo per l’assistenza legale in caso di controversia, anche là dove lo stesso condomino avesse deciso di non partecipare alla lite deliberata dall’Assemblea.
Nella motivazione del provvedimento del Tribunale di Forlì, viene per l’appunto citata la sentenza della Corte di Appello di Bologna, che sul medesimo aspetto aveva già stabilito l’illegittimità di una polizza siffatta in ambito condominiale, annullando la delibera condominiale contestata.
In quel caso, la Corte di Appello di Bologna, aveva altresì stabilito che la stipula di una polizza siffatta dovrebbe essere decisa all’unanimità da parte dei condomini, perché, in caso di delibera assunta solo a maggioranza, verrebbe violato il diritto del singolo condomino di dissociarsi da una lite, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.1132.c.c..
In conclusione, la stipula di una polizza di tutela legale condominiale esula dalla competenza sia dell’Amministratore, sia dell’Assemblea, dovendo essere eventualmente decisa all’unanimità da tutti i condomini.
Responsabilità solidale dell’impresa appaltatrice e del progettista e/o direttore lavori
I due casi esaminati da due recentissime sentenze della Corte di Appello di Genova e della Corte di Appello de L’Aquila (cfr. Corte di Appello Genova, 12 Maggio 2020, n.436 e Corte di Appello L’Aquila, 06 Maggio 2020, n.658, entrambe pubblicate per esteso su De Jure.it) consentono di rileggere i princìpi fondanti la c.d. responsabilità solidale del professionista tecnico e dell’impresa appaltatrice, alla luce della giurisprudenza in materia.
Nella prima vicenda, sottoposta al vaglio della Corte di Appello di Genova, gli acquirenti di un immobile avevano denunciato diversi vizi riscontrati nel bene acquistato, convenendo in giudizio la società venditrice ed esecutrice dei lavori, la quale a sua volta aveva chiamato in causa la ditta a cui i lavori erano stati subappaltati (poi fallita) unitamente all’architetto, quale progettista e direttore dei lavori.
La conseguente chiamata in causa a garanzia dell’assicurazione da parte dell’Architetto esula dalla presente disamina e quindi non verrà trattata.
Nel secondo caso, i committenti di alcuni lavori di ristrutturazioni avevano chiesto la condanna al risarcimento dei danni, per vizi e difetti nei lavori, della ditta appaltatrice dei lavori e dell’Ingegnere, progettista del progetto esecutivo e direttore dei lavori.
Anche in questo caso gli aspetti correlati alla chiamata in garanzia dell’assicurazione del professionista non verranno esaminati, esulando dall’ambito della presente indagine.
Ciò detto, in entrambi i casi venivano convenuti in giudizio, per le rispettive responsabilità, l’impresa appaltatrice dei lavori e il professionista tecnico; nei casi di specie, il tecnico che aveva ricoperto il ruolo di progettista e di direttore dei lavori.
La responsabilità c.d. solidale dell’impresa e dei professionisti che hanno prestato la propria opera professionale a vario titolo nei lavori, si fonda sul principio che se il danno subito dal committente è conseguenza di concorrenti inadempimenti delle figure che hanno partecipato a vario titolo all’esecuzione dell’opera, tutti rispondono solidalmente dei danni (art.2055.c.c), essendo sufficiente per la solidarietà che le azioni o omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento di danno, a nulla rilevando che le medesime azioni costituiscano autonomi fatti illeciti o inadempimenti, o violazioni di norme giuridiche diverse – c.d. concorso di condotte eterogenee (cfr. Cass. civ. 20294/2004).
In sostanza, la giurisprudenza estende questa responsabilità al costruttore (compreso il costruttore- venditore) e a quanti abbiano collaborato alla costruzione, nella fase esecutiva (direttore lavori) e/o nella fase ideativa ( progettista), ogni volta che venga dimostrato che i problemi costituenti vizi e gravi difetti dell’opera, siano riferibili alla prestazione dell’uno o dell’altro professionista.
Il danneggiato (committente o terzo) può rivolgersi indifferentemente a chiunque dei soggetti che abbiano concorso alla causazione del danno. Il soggetto che venga condannato a pagare l’intero danno avrà azione di rivalsa nei confronti degli altri corresponsabili.
In mancanza di dati certi sulla misura dei rispettivi inadempimenti, che viene determinata dalla gravità e dalla colpa di ciascuno e dall’entità delle conseguenze, le singole colpe si presumono uguali (cfr. Tribunale di Bologna, sentenza N.2665/2018).
La diligenza richiesta al professionista tecnico (analoga a quella del prestatore d’opera intellettuale, quali notai, medici, avvocati, etc etc) è diversa da quella richiesta all’uomo medio a’ termini dell’art.1176, I comma c.c. , ed è commisurata o valutata in base alla natura dell’attività esercitata.
La diligenza del professionista è collegata alla competenza tecnica in senso lato (nome, prestigio, esperienza nel settore di riferimento) del professionista, che fa sì che il cliente si rivolga a lui per conferirgli un incarico nel settore di riferimento; quindi la sua competenza e perizia si presumono.
Il professionista risponde dell’adempimento della propria prestazione (contratto d’opera intellettuale) anche per colpa lieve, mentre nei casi in cui la prestazione richieda la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (casi molto rari) la legge (art 2236 c.c.) prevede una limitazione della responsabilità (solo per l’imperizia, giammai per l’imprudenza o la negligenza che rimangono passibili di inadempimento anche per colpa lieve) , talché il professionista risponde solo per colpa grave o dolo.
Ma i casi di prestazione che richieda la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, sono sempre più rari, perché il progredire delle conoscenze scientifiche, unite al progresso tecnologico, ha ampliato il bagaglio di conoscenze a disposizione del professionista; ciò ha, dunque, comportato un sensibile innalzamento dello standard di diligenza richiesta.
In pratica, il professionista che abbia stipulato un contratto di opera professionale intellettuale, in caso di mancato raggiungimento del risultato previsto dal cliente (es. redazione di un progetto) per liberarsi dalla responsabilità per danni, deve dimostrare che l’inadempimento o il ritardo è stato causato da impossibilità derivante da causa a lui non imputabile, perché, come detto, la sua perizia e competenza in relazione all’incarico accettato si presumono; altrimenti, risponde del mancato raggiungimento del risultato previsto dal cliente.
L’attività professionale implica anche l’adempimento di obblighi e doveri corollari rispetto all’obbligazione principale oggetto dell’incarico, quali il dovere di informazione, di fedeltà, di riservatezza, obbligo di eseguire personalmente l’incarico.
Anche la violazione di questi obblighi può comportare la responsabilità contrattuale del professionista.
Tornando alle figure del progettista e del direttore dei lavori, i loro compiti sono diversi, in relazione alle diverse responsabilità.
Riassumendo, il progettista ha il compito di redigere un modello in funzione della realizzazione di uno specifico manufatto; il progetto è strumentale alla realizzazione dell’opera.
Tuttavia, a volte, in funzione del risultato atteso dal cliente, la redazione del progetto può essere lo scopo finale del cliente.
La fase preparatoria del progetto (il c.d. studio di fattibilità) deve rispondere a due esigenze, materiale- economica di spesa (preventivo) e giuridica, a cui sono collegate specifiche responsabilità contrattuali.
Tra i doveri del progettista, connessi alla prestazione a Lui richiesta, si segnalano: accertare con precisione confini, dimensioni e le caratteristiche urbanistiche dell’area su cui la costruzione dovrà essere realizzata, sondare il suolo, il sottosuolo ed effettuare indagini conoscitive, verificare la conformità del progetto alle norme giuridiche e urbanistiche della zona.
In difetto dell’approvazione da parte della P.A del progetto e quindi in caso di mancato rilascio dell’autorizzazione amministrativa per inidoneità tecnica del progetto, vi è la presunzione che la prestazione del progetto sia stata carente della dovuta diligenza, talché il committente può rifiutare il pagamento del compenso al progettista (Cass. civ. n. 22129/2008).
Deve rilevarsi, tuttavia, che l’errore del progettista su norme non tecniche (ossia giuridiche) molto complesse o di recente emanazione, può determinare una colpa professionale che potrebbe essere valutata con minor rigore, alla stregua dei parametri di cui all’art. 2236 c.c..
Nelle zone sismiche, la progettazione deve essere predisposte dal progettista in presenza di un quadro geologico adeguato, che individui i principali caratteri tettonici, nonché l’eventuale presenza di fenomeni di instabilità del territorio: le indagini dovranno comprendere i dati utili per comprendere la propagazione delle eventuali onde sismiche, ivi comprese le condizioni stratigrafiche del substrato rigido.
Il Direttore dei lavori rappresenta il committente con riguardo alle manifestazioni di volontà in ambito strettamente tecnico durante la fase esecutiva.
Suo compito precipuo è assistere e sorvegliare l’esecuzione dell’opera in base al progetto, dando, se del caso, le opportune istruzioni, senza potere variare nel complesso l’opera, per garantire al committente la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi.
L’obbligazione del D.L. ha ad oggetto una attività puramente intellettuale, non dando luogo alla realizzazione di una opera dotata di autonomia rispetto all’esecuzione dei lavori; in questo senso, l’adempimento del D.L. va valutato, non in rapporto al risultato utile, ma alla diligenza e perizia impiegata dal professionista.
A motivo di ciò, i difetti dell’opera non possono essere attribuiti al Direttore Lavori sic et simpliciter , ma hanno solo valore sintomatico della sua possibile responsabilità, che in ogni caso concorre con quella dell’appaltatore che assume il rischio del raggiungimento del risultato finale nei confronti del committente.
Il Direttore dei Lavori è responsabile della conformità delle opere rispetto a quanto previsto nel permesso di costruire e alle modalità esecutive, con obbligo, per andare esente da corresponsabilità nella causazione dell’illecito e del danno, di segnalazione di eventuali illeciti agli uffici competenti e rinuncia all’incarico.
La nomina del D.L. non è obbligatoria negli appalti privati, mentre è obbligatoria negli appalti pubblici.
Il ruolo del Direttore Lavori non incide sull’autonomia dell’appaltatore che, per definizione, è obbligato ad osservare le regole dell’arte della costruzione e ad assicurare il risultato finale al committente: ma la responsabilità del Direttore Lavori è interconnessa con quella dell’appaltatore, per gli eventuali vizi e/o difetti della costruzione finale, o dell’intervento commissionato (ristrutturazione, manutenzione straordinaria etc. etc.).
I compiti specifici del direttore lavori sono quindi principalmente due:
1) l’alta sorveglianza
2) direzione dei lavori
N.B. il compito di gestire la fase esecutiva è del direttore di cantiere, collaboratore dell’appaltatore, che cura lo svolgimento materiale dei lavori, assume poteri dirigenziali all’interno del cantiere, organizza e coordina l’attività necessaria dei vari operai sul cantiere, l’adeguato numero di mezzi e il loro regolare utilizzo.
Riassunti brevemente i profili della responsabilità contrattuale (professionale) del progettista e del direttore lavori, in relazione alla responsabilità dell’impresa appaltatrice, che assume l’incarico di costruire un’opera (o un servizio) con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio verso un corrispettivo in denaro, torniamo ai due casi esaminati dalle Corte di Appello di Genova e de L’Aquila.
La Corte di Appello di Genova, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, accerta la responsabilità dell’Architetto progettista e direttore lavori, accogliendo la domanda di manleva dell’impresa costruttrice e venditrice nei confronti del professionista, per i vizi riscontrati nel bene compravenduto.
Nel fare ciò, la Corte di Appello ribadisce che l’accertamento della conformità al progetto, nel corso della progressiva realizzazione dell’opera, la verifica della corretta modalità di esecuzione dell’opera rispetto al capitolato e alle regole della buona tecnica di costruire, nonché il dovere di adottare tutti gli accorgimenti tecnici necessari volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi, sono tutte obbligazioni connesse alla competenza richiesta al Direttore dei Lavori.
Per andare esente da responsabilità, il direttore dei lavori avrebbe dovuto dimostrare di avere correttamente vigilato sui lavori, di aver dato le opportune disposizioni a riguardo all’appaltatore e di averne verificato l’ottemperanza, nonché, in mancanza di ciò, di avere riferito i problemi al committente.
Medesimi principi vengono applicati dalla Corte di Appello abruzzese, rispetto all’esecuzione dell’incarico dell’ingegnere, progettista e direttore dei lavori, il quale aveva sì dimostrato di avere contestato all’impresa appaltatrice carenze e difformità nell’esecuzione dei lavori, ma solo successivamente all’ultimazione delle opere e quindi non poteva essere considerato esente da responsabilità professionale.